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Il Natale del '53

Il Natale del '53

(by Antonio Abbate) 

Il Natale del ’53

“Te piace ‘o presepio” chiedeva al figlio, Luca Cupiello (Natale in casa Cupiello di E. De Filippo). Mio padre , invece, non ce lo chiedeva, ma non perché temesse una risposta negativa o perché domandarlo a tutti figli ed attendere tutte le risposte richiedeva del tempo, ma semplicemente perché dava per scontato che, almeno finché si è bambini,  il presepe piace.

Perciò verso la fine di novembre, il disgustoso odore della colla di pesce sciolta sul fuoco e i fumi della ceralacca con cui si riattaccavano gli arti alle statuine di terracotta mutilate, annunciavano che mio padre aveva iniziato ad assemblare tavolette e liste di legno che avrebbe poi ricoperte con pezzi di sughero e carta per imballaggio, per dare forma al tradizionale paesaggio di montagna in cui inserire la scena della natività.

Papà iniziava la costruzione a fine novembre  per avere il presepe completo per l’inizio della novena degli zampognari.

Dieci giorni prima del Natale, arrivavano dai monti dell’avellinese in coppia, un suonatore di zampogna ed uno di ciaramella. Calzavano scarponi chiodati, indossavano ampi mantelli neri di stoffa pesante e in testa avevano un cappello dello stesso colore del mantello a falda larga per ripararsi sia dal freddo che dalla pioggia.

Mi richiamavano alla mente i briganti che avevo visti fotografati in un libro di dimensioni esagerate che mio padre custodiva sotto un armadio poiché era impossibile collocarlo sugli scaffali della libreria.

Portavano la novena porta a porta. A casa mia non venivano invitati al primo piano ove era ubicato il presepe, ma si fermavano in cortile davanti ad una nicchia nella quale  era stata dipinta la figura di un santo ormai irriconoscibile tanto la vernice era sbiadita, e lì davano fiato ai loro arcaici strumenti.

Per strada erano seguiti da uno stuolo di ragazzini vocianti e litigiosi “scugnizzi” li definivano i miei o ragazzi “’e miez’a via” ragazzi di strada.

E quanti ragazzi di strada c’erano allora. Mal vestiti e in estate a piedi nudi, in inverno calzavano zoccoli e ciabatte, senza la protezione delle calze che non possedevano. I piedi erano gonfi per i geloni e le mani piagate dalle “serchie”, le ragadi causate dal freddo. Quanta povertà.

Per tutti il periodo della novena, molti di questi ragazzini  già in strada dalle prime luci dell’alba, seguivano gli zampognari spesso schernendoli per il loro aspetto e cantando  versi profani sulla melodia sacra.

“Nuvena, nuvena ca mammeta è prena, ha fatto nu figlio, si chiamma Michele…n’’ha fatto ‘n ‘ato si chiamma Pascale…” e terminavano con una parola volgare indirizzata ad uno dei ragazzi  presenti che talvolta non accettava di essere insultato e rispondeva per le rime con parolacce indirizzate alla madre e alle sorelle dell’antagonista, provocando la rissa.

Nel ’53 , quanti anni sono passati, l’aria di casa non si era ancora impregnata del caratteristico odore della colla e si era già a fine novembre.

“Non lo fai ‘o presepio, quest’anno ?” domandò mia mamma a mio padre, “non lo dico per me ma per i bambini. Senza presepio che Natale è?”

“E ti pare che lascio i bambini senza presepio, quest’anno arriverà bello e fatto”.

Glielo aveva promesso in regalo un artista dell’arte presepiale, suo amico.

Era costui un triestino trapiantato a Napoli per lavoro, che si era appassionato a questa tradizione più che gli stessi napoletani, facendone un hobby costante a cui dedicava pressoché tutto il tempo libero. La sua specialità era quella dei presepi settecenteschi nei quali ambientava la sacra nascita tra ruderi romani. Costruiva anche  presepi miniaturizzati dalla forme particolarissime. Per noi ne fece uno tradizionale.

Lo portò di persona, caricato su un carretto trascinato a mano da lui stesso.

Ci volle l’aiuto di più persone per portarlo in casa tanto pesava.

I presepi costruiti da mio padre erano belli, ma con questo non c’era paragone, realizzato con arte e ricco di particolari incantevoli anche se si affastellavano senza rispetto per la cronologia e la storia. Ma il presepe è una favola e nelle favole, si sa, ogni fantasia è consentita.

C’era il castello di Erode con merli e ponte levatoio, come un castello medioevale che fronteggiava l’accampamento romano circondato da mura. I recinti per le pecore erano realizzati con vere pietre come gli stazzi che si incontrano in  montagna; il pagliaio di Benito, il pastore della meraviglia, fatto con piccole balle di paglia. E che dire della cascata ghiacciata ricca nei salti di stalattiti di ghiaccio- cemento, per la quale precipitava vorticosamente l’acqua che giunta a valle si inabissava per ricomparire in allegri zampilli in un laghetto circolare.

Lo arricchivano ancora artistiche casette isolate sulla montagna o raggruppate in borghi, ognuna con la sua lucina, le vie con i lampioni e sul proscenio le botteghe artigiane  come in un paese degli anni cinquanta ed al centro la grotta resa di una luminosità divina da un gioco di specchi.

Papà ne fu entusiasta ed anche noi che l’aiutammo a sistemare le statuine quelle più grandi in basso e le più piccole verso l’alto per creare la prospettiva.

I pesci rossi vivi nel laghetto che dovevamo nutrire a turno ogni giorno, fu una richiesta della sorellina. Lui poi ideò un meccanismo che proiettava sul cielo stellato l’immagine della cometa che percorreva senza sosta la volta celeste.

Con un presepe così bello la novena non poteva più farsi in cortile. Gli zampognari quell’anno salirono in casa seguiti dal codazzo di ragazzi che davanti al presepe si incantarono più di Benito davanti all’angelo.

“Ma scenne l’acqua vera!; oh, oh e pisce se moveno! Benì chiude ‘a  vocca che te traseno e mosche”.

Papà li lasciò esternare la loro sorpresa poi ad un certo punto disse: “Zitti guagliù che i maestri devono suonare”

Gli zampognari attaccarono la novena con grande impeto. La prima parte forse raccontava musicalmente della fuga in Egitto (ma non ne sono certo) perché il suonatore di ciaramella di tanto in tanto recitava un verso ritmandolo come i moderni rappers. Non so se volutamente o perché affannava per l’asma: “E san Giuseppe stanco camminava”, recitava; riattaccava a suonare; poi nuova pausa: “e Maria lo stringeva al seno” cui seguiva uno zampillio di note acute che galleggiavano sui bassi della zampogna. Tutto il concerto terminò con un bellissimo “Tu scendi dalle stelle”  he con gli anni ho scoperto essere veramente l’adattamento in italiano di “Quanno nascette ‘o ninno a Betlemme” canto natalizio in dialetto scritto dal napoletano sant’Alfonso Maria de’ Liguori, come già a quei tempi sosteneva una mia cugina più grande di me. Ma io non le credevo e le dicevo” ma che ne vuoi sapere tu che sei arzanese” come se quelli di Arzano dovessero per forza essere ignoranti.

Il  giorno della vigilia gli zampognari furono ricompensati in danaro. Fu anche offerto  loro un bicchierino che non bevvero ma riversarono in una borraccia mescolandolo con i liquori offerti nelle altre case. Che miscuglio straordinario avrebbero poi bevuto! Dolcetti natalizi furono distribuiti anche ai ragazzini che ne furono felici.

A me e a miei fratelli non furono dati perché la vigilia veniva osservata da noi con il digiuno; non che stessimo totalmente digiuni ma non si mangiava fuori pasto e a mezzogiorno si faceva uno spuntino.

 La sera però ci fu il cenone. Spaghetti a vongole  e pesce al forno ed altre portate tradizionali; non fritti e capitone che erano banditi dalla nostra mensa.

Squisiti furono i dolcetti, mostaccioli a forma di rombo ricoperti cioccolata, raffaiuoli  tondi, avvolti di glassa candida e roccocò, ciambelle alla mandorla. Questi ultimi, molto duri, erano graditi dagli adulti perché, per ammorbidirli,  si intingevano nel vermouth che ci regalava con i dolci lo zio di mia madre.

Dopo cena tutta la famiglia si recò alla messa di mezzanotte. I fratelli più piccoli si addormentarono dopo pochi minuti,  i più grandi a metà funzione ma non erano gli unici perché dormivano anche molti anziani comprese, le due nobili vecchie sorelle che in chiesa avevano il  privilegio di un posto riservato e gli inginocchiatoi personalizzati con il loro nome. Anch’esse “capozziavano” in continuazione, piegavano lentamente la testa verso il basso alzandola poi di scatto quando si accorgevano che stavano per soccombere a Morfeo.

Dopo l’offertorio gli adulti dormienti vennero svegliati da Deodato, il sagrestano, che passava per far pagare la sedia, strana usanza  che non ho più riscontrata in nessun’altra chiesa.

Ogni persona che stava seduta doveva corrispondere cinque lire per la sedia. Tra i fedeli era tutto un agitare di mani per indicare che si pagava anche per questo o per quello ( parente, amico, compare) che era seduto altrove. I beneficiati inchinavano impercettibilmente la testa in segno di ringraziamento

Raccolti i soldi  per le sedie il sagrestano ripassò con il cestino per l’offerta libera. Terminata la messa, i fedeli uscirono, con frastuono di voci e di sedie rimosse,  dalla chiesa e indugiarono festanti sul sagrato per scambiarsi vicendevolmente gli auguri di buon Natale con baci e abbracci.

Ritornammo a casa tutti insieme, il più piccolo addormentato  in braccio a mamma. 

Papà, invece, sorreggeva un cesto Natalizio, dono che qualcuno gli aveva portato fin sul sagrato.

Appena svoltammo nel nostro vicolo ci investì una folata di aria gelida.

“Che friddo! Pare ‘a Siberia” esclamò mio padre e si strinse intorno al collo il bavero del cappotto.

Buon Natale e  Felice Anno Nuovo  agli affezionati lettori ai quali dedico questo poetico alberello di Natale:

*

***

31 DICEMBRE

E’ mezzanotte, stappa.

Scoppia un petardo,

lontano rimbomba un altro.

Salgono i razzi  a illuminare il cielo,

con fatue, effimere, colorate stelle.

Fugge l’anno finito col buio della notte.

Brinda al nuovo anno che arriva

E alla  buona sorte.

Lunedì, 05 Giugno 2017
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