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Allucinazioni di un querelante seriale

 2021 alluc.5

By Antonio Abbate

Tronchin Eleuterio, com’ era sua abitudine, si svegliò all’alba. Entro le otto doveva allestire il suo banco di semi e frutta secca al mercato rionale.

Entrò in cucina per prepararsi il caffè che quotidianamente sorbiva appena sveglio a piccoli sorsi e pigiò il pulsante dell’interruttore della luce.

La cucina rimase al buio. Eleuterio riprovò più volte ma la lampadina rimase spenta. “Me ne hanno fatta un’altra quei due maledetti” mormorò a denti stretti.

Quando uscì di casa, si recò prima al Commissariato di pubblica sicurezza a sporgere querela contro i coniugi Pepi, custodi del suo stabile, a suo dire, responsabili di avergli sabotato l’impianto elettrico.

Una seconda querela partì quando notò due nuovi graffi sulla malandata carrozzeria della sua vecchia auto.

Dopo qualche giorno, dovendo fare colazione, fu sorpreso dal barattolo di marmellata quasi vuoto. “Me la stanno divorando fino all’ultima goccia” disse e di corsa a sporgere denunzia contro i Pepi per furto di marmellata.

Successivamente li denunziò numerose volte per altre malefatte improbabili e simili alle precedenti.

Per un po’ i due portinai furono benevoli nei confronti del Tronchin. “E’ un po’ fuori” dicevano all’ispettore di polizia che li convocava in commissariato per notificare loro le denunce. Poi constatando che la persecuzione diffamatoria del Tronchin nei loro confronti proseguiva creando loro continue perdite di tempo, sporsero una querela per calunnia nei suoi confronti sperando che servisse a farlo desistere dalla sua mania.

Eleuterio invece aveva preso gusto a denunziare e ne fece una contro l’ispettore reo di non avere arrestato i coniugi Pepi e finanche contro il giudice assegnatario del procedimento, colpevole di avere archiviato le sue denunzie. L’iter giudiziario, innescato dai portinai, si concluse invece con una perizia psichiatrica su Tronchin che, ritenuto incapace di intendere e volere ma non pericoloso per sé e per gli altri, fu coattivamente ricoverato per le opportune cure, nella comunità psichiatrica “Villa Fiorita”.

Eleuterio non si rendeva conto del perché lo avessero rinchiuso, essendo lui il denunziante e parte offesa. Non poteva che essere un complotto dei Pepi e del giudice. Questa convinzione accrebbe l’odio verso i custodi del suo condominio.

Per la perdita della libertà e la mancanza del lavoro a cui aveva dedicato la sua vita, precipitò dall’ abituale stato di eccitazione nella depressione.

Restio a curarsi, furbo di natura, fingeva di volersi attenere scrupolosamente ai consigli del medico nei confronti del quale si mostrava esageratamente ossequioso; in realtà rifuggiva dalle cure subdolamente, nascondendo le pillole somministrate sotto la lingua invece di ingoiarle e provocandosi volontariamente il vomito delle gocce che gli venivano somministrate la sera, prima del riposo notturno.

Il suo stato di salute progressivamente peggiorò fino a che fu preda di allucinazioni. Sentiva la voce di un essere che si dichiarava sua guida e lo sollecitava a prepararsi al giorno della vendetta, ormai vicina.

Da alcuni giorni Tronchin obbediva solo al suo spirito guida; gli ordini dati da infermieri e educatori li ignorava o per ripicca faceva il contrario.

Quel giorno il suo fantasma, con tono che non ammetteva rifiuto, gli diceva con insistenza: “Vai e fa quello che sai”.

“Ma dove devo andare?” domandava il vecchio. “Vai” si limitava a ripetere la voce senza aggiungere altro.

Il giardiniere di Villa Fiorita fece di corsa il viale fino alla palazzina della direzione nè rallentò per le scale. Giunse trafelato davanti al direttore della comunità al quale riferì la sua scoperta. Nella rete di recinzione, verso il bosco, c’era un grande squarcio che avrebbe potuto consentire il passaggio di un adulto.

L’allarme fu dato immediatamente e scattò la procedura di emergenza stabilita per circostanze simili. Tutto lo staff operò i controlli necessari ad accertare che tutti i pazienti fossero in sede. Tronchin, cercato in ogni dove, risultò irreperibile. Si era allontanato furtivamente.

Il vecchio si era alzato alle prime luci dell’alba per dare attuazione al piano di evasione e vendetta.

Col tronchesino sottratto all’officina aveva reciso la rete di recinzione ed era uscito dall’istituto.

In quel punto un inestricabile groviglio di rovi pungenti e di spinosissime rose canine formava una barriera difficile da valicare. Ma Eleuterio aveva una tale determinazione a vendicarsi che niente e nessuno avrebbe potuto fermarlo.

Incurante del dolore che gli arbusti spinosi gli procuravano lacerandogli le carni, si fece strada fra di essi, superò la barriera e, sanguinante, raggiunse un tratto di bosco meno ingombrato da cespugli ma molto ripido.

Il povero Tronchin, per la scarsa luce e per la foga con cui scendeva dal pendio, inciampò e caduto rotolò per la china per molti metri fino a che si arrestò contro un grosso tronco di abete. Nell’urto si ferì a un sopracciglio che prese a sanguinare.

Si mise a sedere appoggiando la schiena all’albero e con un fazzoletto cercò di tamponare la ferita. Fu allora che sentì nuovamente la voce: “Non fermarti. Compi la tua vendetta!”. Intontito e stremato dalla fatica e dall’impatto cruento e violento contro l’albero, chiuse gli occhi.

Gli sembrò di dirigesi, incalzato e trascinato da una gran folla, verso l’ingresso di un palazzo antico. Tutti mostravano di avere una gran fretta ma giunti al portone si accalcavano poiché l’ingresso era sbarrato da una cancellata con uno stretto passaggio da cui poteva accedere una sola persona per volta.

Aiutandosi con spinte e gomitate si fece largo nella calca e riuscì ad entrare.

Gli si aprì davanti un grande salone; sulle pareti decorazioni in stucco color avorio e innumerevoli quadri oggetto di ammirazione del pubblico presente.

Lui, però, si diresse verso un’artistica porta in legno di noce scuro con decori in bassorilievo, sorpassata la quale si trovò in una piccola chiesa, una cappella palatina affollatissima.

Le panche erano tutte occupate e persone in piedi ostruivano il corridoio di accesso all’altare. Un prete, in paramenti sacri preziosamente ricamati, officiava solennemente. Il Pepi era seduto in prima fila. Tronchin inserì una mano in tasca e assicuratosi della presenza di un coltello a serramanico, si diresse verso l’odiato nemico. Pepi lo vide e rapido uscì da una porta laterale della cappella. Tronchin decise di inseguirlo ma rallentato dalla ressa dei fedeli, riuscì ad uscire fuori in una stradina quando la persona che inseguiva già era in fondo al vicolo e svoltava verso destra dopo essersi a lui rivolto gesticolando per invitarlo ironicamente a inseguirlo.

Anche l’inseguitore svoltò nella stradina sulla destra che ben presto si trasformò in un sentiero di montagna. Percorse il sentiero per alcuni minuti senza potere rintracciare il nemico.

Decise di ritornare in paese e voltatosi percorse il sentiero a ritroso. Fattone un buon tratto notò che il paesaggio era diverso. C’erano armenti al pascolo e contadini al lavoro. Pensò di non averli notati prima in quanto era stato tutto attento a inseguire il portinaio. Per prudenza decise di interpellare i contadini: “E’ questo il sentiero per rientrare in paese?”

Inaspettatamente apprese che la strada non era quella. “Deve ritornare indietro e svoltare a destra alla biforcazione. Non può sbagliare perché c’è un segnale dipinto in rosso sulla roccia che indica la svolta”.

Ringraziò e tornò indietro ma non riusciva a trovare il punto di svolta segnalato dalla roccia rossa. Camminava, camminava senza sosta affannando e intanto la strada diveniva sempre più ripida e sassosa. Giunse su un’altura. Alla sua destra in giù, vedeva il mare, una tavola azzurra fasciata a riva, da una striscia di schiuma bianca.

A sinistra, invece, un precipizio di alcuni metri si affacciava su uno sterrato percorso da alcune persone.

“Per ritornare al paese?” chiese Tronchin. “Sempre avanti e poi a destra quando finisce la selva”. Riprese il cammino scendendo verso il mare e dopo l’ultimo albero svoltò a destra. Una striscia di sabbia angusta lo costrinse a lambire con i piedi le piccole onde fino a che una roccia ripida gli sbarrò il cammino.

Entrò in acqua immergendosi fino alla cintola per aggirarla e si ritrovò sul viottolo che conduceva al paese. Era stanco e deluso per non aver raggiunto il suo nemico. Affannava per la fatica e quasi non si reggeva sulle gambe. Maledisse il Pepi, origine dei suoi guai.

Desiderò avere a disposizione la sua vecchia utilitaria per non percorrere altre strade a piedi e subito la intravide nella stradina della chiesa. Aprì la portiera e trovò la chiave di avviamento già inserita. Non si chiese perché la sua auto fosse lì, anzi gli sembrò che fosse normale che l’attendesse. Si avviò lentamente avendo deciso di percorrere quella strada secondaria e di svoltare nel grande viale che conduceva alla comunità da cui era evaso. All’incrocio, la strada che percorreva risultò essere sopraelevata di almeno un metro rispetto al viale principale. Non pensò di invertire la marcia né di frenare anzi accelerò saltando nella strada sottostante. L’impatto fu violento; tutte le sue ossa scricchiolarono all’unisono. Tronchin sentì un dolore lancinante in tutte le parti del suo corpo. Aprì gli occhi.

Si trovava ancora nel bosco circondato da alti faggi e abeti, appoggiato con la schiena al tronco che aveva arrestata la sua caduta. Sul sopracciglio il sangue si era rappreso in un grumo nerastro. Il volto graffiato gli procurava un fastidioso bruciore.

Eleuterio si guardava intorno spaesato senza rendersi conto di dove fosse e perché fosse lì.

Il silenzio del bosco era interrotto di tanto in tanto dal cinguettare di un uccellino nascosto tra i rami. Il vecchio stanco si abbandonò alla fresca brezza che attraversava il bosco e sfiorandolo leniva il bruciore del suo viso.

Si riscosse solo quando udì il secco rumore di colpi d’ascia. Ogni colpo gli rimbombava nella testa procurandogli una fitta dolorosa. La voce guida si fece risentire: “E’ lui che ti provoca e ti infastidisce con questi rumori”.

Tronchin si alzò a fatica e si diresse verso la fonte dei rumori.

Avanzò lentamente badando a non fare rumore con i suoi passi e nascondendosi furtivamente dietro i tronchi degli alberi, come un cacciatore che insegue la preda.

Davanti a lui si aprì una piccola radura e in un uomo intento al lavoro riconobbe il Pepi. “Si è lui” si disse. Corse allora verso lo sconosciuto impugnando il coltello e raggiuntolo si scagliò contro di lui gridando: “Maledetto ti ho finalmente ritrovato”. Il suo braccio calò con violenza verso lo sconosciuto per colpirlo col coltello a serramanico. Fortunatamente il giovane taglialegna era forte e reattivo. Parò il fendente col manico dell’ascia e lo colpi con un violento calcio al basso ventre.

Tronchin emise un ruggito di dolore; lasciò cadere l’arma e si accartocciò su se stesso. Si raggomitolò seduto con le ginocchia alzate, abbracciate con entrambi le mani e tirate verso il torace.

Appoggiò la testa sulle ginocchia e piangendo vaneggiava con il suo fantasma: “Basta, basta. Non voglio più obbedirti. Non rivolgermi più la parola; non ti seguirò mai più; vai lontano da me”.

Avvisati dal giovane sfuggito all’ira di Eleuterio, giunsero i carabinieri della locale stazione. In quel povero vecchio, seduto per terra, insanguinato, piangente, vaneggiante, riconobbero il paziente di “Villa fiorita” dove lo ricondussero.

Questo violento episodio riferito al magistrato, indusse il giudice di sorveglianza a dichiarare persona pericolosa per sé e per gli altri Tronchin Eleuterio che allontanato da Villa Fiorita, fu rinchiuso in altra struttura psichiatrica di maggior sicurezza. 2021 alluc.7

Martedì, 18 Maggio 2021
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