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La Burocrazia

La Burocrazia

LA BUROCRAZIA 

(by Antonio Abbate)

Mi presento: sono Mario Rossi, ma potrei essere Giorgio Bianchi o Gennaro Esposito. Perché dico questo? Perché sono un normale cittadino come tanti. Svolgo la mia professione, ho la mia famiglia, dormo, mangio, ho i miei interessi… Sono quella che si dice una persona normale e come tutti i normali cittadini sono soggetto alle leggi di questo Stato di cui ho il massimo rispetto. Ma non ho ricevuto lo stesso rispetto dallo Stato perché quello che mi è capitato è davvero inimmaginabile e intollerabile anche da parte di un normale cittadino.

Quando iniziai a esercitare la libera professione, pensai di potere incrementare le mie entrate, allora non esaltanti, iscrivendomi all’albo dei periti del Tribunale della mia città.

Per anni attesi fiducioso un incarico che tardò ad arrivare fino a non pensarci più.  Quando avevo dimenticato anche di essermi iscritto all’Albo, ecco che un giorno trovo nella cassetta della posta una busta di colore verde.

Mi turbo poiché associo il colore verde alle notifiche di contravvenzioni stradali. Decido di cavarmi subito il dente dolente e apro la busta immediatamente. Mi preoccupo ulteriormente. E’ un avviso di notifica del Tribunale, non si tratta di contravvenzione. 

“…in assenza del destinatario, l’atto è stato depositato presso la Casa Comunale, dove potrà essere ritirato…”.

Vado in ansia e comincio a scervellarmi, cercando di individuare tra i miei ricordi, episodi che avrebbero potuto interessare anche marginalmente l’autorità giudiziaria. Non ne trovo. Mi agito sempre più, ho il battito accelerato. Decido di tralasciare ogni impegno e corro in Comune.

Fila d’ordinanza, attesa, esibisco l’immancabile carta d’identità: la lettera, l’atto giudiziario è finalmente in mio possesso.

Accerto che è un invito anzi un perentorio ordine: “…l’ing. Mario Rossi, nominato perito di ufficio nel procedimento… deve presentarsi il giorno…alle ore…Si avverte che non presentandosi incorrerà nella sanzione pecuniaria di… e accompagnamento con la forza pubblica”.

Il primo pensiero è che forse sarebbe opportuno, in casi come questo, nei riguardi di un professionista (ma di qualunque onesta e normale persona che fosse coinvolta in analoga situazione) un preavviso, un contatto informale per consentirmi di organizzare i miei impegni, considerato che dopotutto devo rendere una prestazione professionale al Tribunale. Ma, comunque, prevale la lusinga e da buon cittadino mi sento quasi onorato dell’incarico. Poi mi stuzzica la curiosità; finalmente dopo anni potrò sperimentare quel lavoro che era stato un desiderio giovanile.

Il giorno fissato per l’udienza del conferimento dell’incarico sono puntualissimo anzi arrivo con un discreto anticipo. Non sia mai che un mio ritardo intralci la nobile funzione della giustizia!

Sono già trascorse due ore di noiosa attesa. Per fortuna sono stato previdente rinviando tutti gli impegni fissati in mattinata.

Ma ecco, mi chiamano. Il mio nome mi rimbomba un po’ nelle orecchie. Entro in aula alquanto frastornato dalla scenografia: Le toghe nere con i cordoni dorati indossate dai giudici, il bancone massiccio, la gabbia degli imputati detenuti mi mettono soggezione.

Guardo intimorito il bassorilievo alle spalle della corte raffigurante un personaggio alato che brandisce un gladio, minaccioso.

Il Giudice mi fa giurare e dopo avere letto il quesito, mi assegna un termine per la consegna dell’elaborato scritto.

Poi mi consegna il fascicolo processuale dicendomi: ” Vada in cancelleria che le saranno date le copie di tutti gli atti che riterrà utili”.

Penso: “Non si potevano preparare già le copie?  Perché farmi perdere altro tempo? Dopotutto potrei avere i miei impegni professionali”.

Bene! Ma che significa “le saranno date”? Se non erro il significato comune, logico, immediato è che qualcuno mi fornirà le fotocopie degli atti che indicherò.

Invece un impiegato in cancelleria mi comunica con tono indisponente” quella è la fotocopiatrice, se le faccia e in fretta che la macchina serve a noi”.

Alle mie rimostranze replica che avrebbe potuto anche predisporle l’ufficio ma che le avrei avute dopo tre giorni.

Scelgo di fotocopiare personalmente gli atti per non dovere ritornare in tribunale e perdere un’altra mattinata.

In studio mi dedico alla stesura della relazione dopo avere speso intere giornate  in sopralluoghi e rilievi. Diciamo che complessivamente per la perizia impiego almeno dieci giorni interi di lavoro.

Alla data fissata per l’udienza, mi presento in tribunale alle ore nove come indicato nella convocazione.

Nuova snervante attesa attorniato da una folla di convocati che gareggia per impossessarsi delle poche panche a disposizione fuori dall’aula. Comincio a esasperarmi. Non sarebbe opportuno ed anche giusto convocare la gente in ore diverse per rubargli il minor tempo possibile? Mi sembrerebbe un sistema tanto logico e rispettoso delle persone.

Finalmente alle dieci e quaranta chiamano la causa. La scenografia di rito non mi provoca la stessa emozione della prima volta. Probabilmente ho già smitizzato questa istituzione con un’organizzazione a dir poco cervellotica e scorretta verso gli utenti.

Mi libero in pochi minuti, il tempo di consegnare la relazione. Il presidente rinvia e fissa l’udienza a cinque mesi riconvocandomi. Che necessità c’era di chiamarmi all’udienza di oggi? Non potevo far pervenire la perizia alla cancelleria in altro modo? Mistero della burocrazia o arroganza del potere? Per il mio onorario esibisco la richiesta di liquidazione chiedo cioè di essere pagato. L’assistente di udienza mi dice che devo presentarla all’apposito ufficio e mi consiglia: “Si affretti che chiude alle ore undici”. Corro. Allo sportello un’impiegata dall’aspetto stanco e annoiato, occhiaie nere profonde cinque centimetri, mi dice che è mio obbligo allegare alla richiesta l’attestazione di deposito.

“Ma non può procurarsela? E’ un atto già in possesso di codesto ufficio!”. L’impiegata non può accettare la mia richiesta; ha ordini tassativi. Ritorno di corsa in aula. Per fortuna l’udienza è stata sospesa per pausa caffè ed ottengo subito dall’impiegato la certificazione. Scendo precipitosamente al precedente ufficio temendo che chiuda. Mancano solo pochi minuti alle undici.

L’impiegata accetta la richiesta e inizia a contestare: i chilometri percorsi per eseguire il lavoro commissionatomi, non sono indicati correttamente perché non devo riferirmi a quelli percorsi in realtà ma alla strada più breve. Ma la strada più breve è la statale, quanto tempo avrei impiegato in più se l’avessi percorsa? “ Questa è la legge” mi dice. Il bollo di quietanza non va richiesto. “Ma non lo paga il cliente? Il dentista me l’ha sempre addebitato!”. “Non è questo il principio. La parte più forte lo pone a carico della parte più debole, lo afferma in una nota l’Agenzia delle Entrate”, mi dice. Mi sembra un principio inaccettabile e antigiuridico. Un ufficio che ha la funzione di rendere giustizia al cittadino, dovrebbe inorridire.

L’impiegata mi avverte anche che le spese sostenute saranno tassate. Ma se sono esborsi reali e documentati con fatture! Mi sembra assurdo ma sono stanco di contestare. Dico: ”Va bene”.  Divento accondiscendente a tutto pur di finirla. Passano mesi e non ricevo un euro. Il giorno della nuova udienza mi reco ormai sfiduciato in tribunale.

La solita inevitabile, snervante attesa. Finalmente mi chiamano. Il presidente mi chiede: “Conferma la perizia?” Confermo e vado via. Mi pongo la stessa domanda”Ma era proprio necessario farmi perdere un’altra giornata di lavoro?” Poiché la mattinata è persa, decido di andare a chiedere notizie del mio non corrisposto l’onorario.

Chiedo all’ufficio informazione dove rivolgermi per i pagamenti. M’indirizzano al quarto piano. Salgo con l’ascensore e individuo l’ufficio dopo un tortuoso percorso labirintico.

Sorpresa: l’ufficio riceve il pubblico dalle dodici alle tredici. Da poco son passate le dieci devo attendere. Mi seggo su una panca e attendo. Passa mezz’ora e un pietoso funzionario esce da una stanza indicata come direzione e vedendomi in attesa mi chiede di quale ufficio ho bisogno. Apprendo così che quello è ufficio della procura e non del tribunale. Ho sbagliato io a non specificare che cercavo l’ufficio pagamenti del tribunale.

Cortesemente mi aggiorna anche sulla procedura da seguire per ottenere il pagamento. Si deve prima emettere fattura da consegnare all’ufficio; poi si sarà pagati quando arriveranno i fondi dal ministero. Cioè fra uno o due anni se va bene.

“Corra giù, mi ricorda, che quell’ufficio chiude alle undici”. All’ascensore c’è la fila. Mi precipito per le scale, arrivo trafelato all’ufficio, giusto in tempo per vedere che l’impiegata sta appendendo alla maniglia della porta il cartello “CHIUSO” per poi allontanarsi velocemente. Nel mio girovagare a vuoto per i corridoi, la vedrò poi nei pressi di un distributore automatico di caffè e bevande. Mi sento colpevole del disguido per avere sbagliato ufficio.

Mi sembra di vivere un sogno angoscioso, di quelli in cui nulla di ciò che vuoi fare, anche la cosa più semplice, come indossare una giacca, riesci a realizzare.

Mi fermo a raccogliere i miei confusi pensieri. Per chiarirmi le idee vado al bar interno a prendere un caffè. Il corridoio che porta al bar è affollata di impiegati, utenti e giudici e avvocati in toga. Alle casse file lunghissime. Finalmente conquisto il mio scontrino. Gli avventori sgomitano per farsi strada verso il bancone. Li imito.

I baristi servono a getto continuo centinaia di caffè lunghi, ristretti, macchiati, marocchini, americani.

Afferro il primo caffè a me più prossimo; qualcuno mi guarda bieco. Mi defilo dalla calca rifugiandomi in un angolo del corridoio e lo gusto a piccoli sorsi.

 Mi sembra ora di avere le idee più chiare. Do uno sguardo alle tabelle degli onorari. Quelli indicati sono veramente miseri. Anche se il giudice per qualche motivo mi raddoppiasse l’onorario, rapportato alle ore di lavoro impiegate, pur senza considerare il tempo trascorso inutilmente in tribunale, otterrei quattro/cinque euro l’ora. Meno della paga di una colf.

Decido di rinunciarvi pur di non perdere altre giornate di lavoro.

Anzi temo che possa essere nominato per altro incarico. L’unica decisione opportuna è cancellarmi dall’albo del tribunale. L’ufficio è al sesto piano e per fortuna l’ascensore è libero.

Sospiro di sollievo. Dopo aver girovagato per corridoi che sbucano in corridoi senza incontrare nessuno cui chiedere un’informazione, trovo l’ufficio ma anche un’altra sorpresa. Quest’ultimo ufficio chiude alle dodici. Com’è possibile che uffici dello stesso ente e nello stesso edificio abbiano orari così diversificati?  Questo è rispetto per gli utenti della giustizia?

Sono stanco, non voglio darmi una risposta. La porta è sbarrata ma l’interno si può vedere attraverso un’apertura nella parete che funge da sportello al pubblico.  Do uno sguardo. Tre impiegati attorniano una scrivania e parlano animatamente, spero di lavoro ma mi sembra di percepire parole come Inter, Milan… Una donna invece ha apparecchiato la sua scrivania per pranzare. Si notano tovaglia, bottiglietta d’acqua, panino e un contenitore di plastica.

Non so cosa fare. Devo disturbare impiegati così impegnati nel lavoro?

Una persona, credo un commesso perché spinge avanti a sé un carrello colmo di registri e faldoni, intanto sta per entrare in quest’ufficio. Lo fermo e gli chiedo come fare per cancellarmi dall’albo.

Dapprima mi fa notare che l’ufficio è chiuso.”. Lo so”, gli dico con voce lamentevole e lo supplico di aiutarmi in quanto, mento, vengo da fuori città.

Sembra convincersi. Entra nella stanza e ne viene fuori con un modulo che mi consegna: “Lo compili e lo invii per posta così evita di ritornare. Ah, dimenticavo ci metta su una marca da bollo da dodici e cinquanta”.

Anche! Aspetta, capisco, gli mollo dieci euro.

Grazie. Grazie a lei dico. Mi allontano spossato ma più sereno. Spero di non dover mai più mettere piede in un tribunale.

Mai più.

Lunedì, 05 Giugno 2017

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