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La premonizione

La premonizione

 

                                                              LA PREMONIZIONE (by Antonio Abbate)

Augusto si trovava nei pressi di un palazzo signorile che gli appariva assai familiare. Il portone, chiuso, era composto di due ante di legno massiccio, di colore scuro, ma non si capiva se fosse verniciato oppure se quel colore fosse naturale.
Sul battente di destra c’era una porticina per l’ingresso  pedonale anch’essa chiusa  su cui, in alto al centro, un batacchio di ottone scurito pendeva da una testina di leone  dello stesso metallo ma lucido quasi abbagliante.
Augusto picchiò più volte il batacchio sul pomo circolare che mostrava i segni degli urti apparendo molto consunto sul punto di battuta. Si chiese perché l’avesse fatto. Non aveva alcun motivo per entrare.
Non ottenne risposta ma la porticina cigolando si aprì lentamente ed Augusto entrò come risucchiato da un leggero vortice. 
Attraversava un lungo androne buio e deserto a lui sconosciuto. Da una porta finestra che si apriva su quello spazio, donne vestite con abiti di foggia strana – antica? - lo invitavano ad entrare con ampi gesti della mano. Con passo leggero,  sfiorando il pavimento come se vi scivolasse sopra, questa era la sua sensazione, superato l’androne, giunse in un cortile assolato, pavimentato da pietre che riflettevano i raggi del sole quasi accecandolo. Facendosi schermo con la mano a visiera  sugli occhi, Augusto si guardò intorno e riconobbe o gli sembrò di riconoscere il cortile del palazzo di un suo lontano vecchio parente che viveva assistito da una nipote, non più giovane ancora nubile.
Su un lato iniziava un’ampia scalinata di marmo bianco che portava al primo piano e diversi ambienti si aprivano su altri lati. Augusto fu molto meravigliato poiché nessuno degli abitanti del palazzo si era palesato mentre gli risultava personalmente che  appena si entrava in quel cortile, usciva la zia da una stanza a piano terra e lo zio si affacciava dalla loggia al primo piano e chiedeva a chiunque con voce aspra e rauca di incallito fumatore di pipa: -  Chi siete? Che volete? Augusto  si sforzava di chiamare: - zia, zia; ma la voce gli usciva afona ed inarticolata.
Lasciò perdere anche perché la sua attenzione era stata attratta da una scritta su una porta in ferro che chiudeva uno dei locali del pian terreno.
“Sala della macchine” era scritto su una grossa etichetta mezza scollata ed Augusto sentì forte la curiosità di vedere queste macchine.
La porta si aprì senza opporre alcuna resistenza e senza produrre alcun rumore con una pressione leggera della mano.
Un odore misto di olio sintetico e di lardo rancido lo investì sull’uscio.
Non era un’officina perché di macchine non ce n’erano o forse erano state macchine, torni o frese, due ammassi di acciaio ricoperti di polvere centenaria.
Poteva considerarsi invece una enorme dispensa.
Una lunga e massiccia trave di legno trafitta da lunghi chiodi per tutta la sua lunghezza,  poco discosta dalla parete, impegnava tutta la sala. Ai chiodi erano appesi salumi e formaggi di  varie dimensioni.
Lunghi tavoli erano occupati da frutta  e vasi di conserve; su un tavolino più piccolo rettangolare erano appoggiate ceste con manico ricurvo piene di uova.
Bottiglie di vino bianco, rosso e spumante, come si leggeva sulle etichette fuligginose, erano poste in piedi su un vecchio bancone e in uno spazio fra le bottiglie, Augusto notò un libro impolverato su cui a mala pena si leggeva “DESTIN”,   mentre altre parole del titolo erano talmente sbiadite da risultare incomprensibili.  
Timoroso Augusto non osava toccarlo, poi, vinto dalla curiosità, osò. Prese il libro e cercò nuovamente di decifrare il titolo: Destino o Destinazione. La polvere lasciava trasparire alcune lettere ma occultava altre parole.
Scosse la polvere accumulata sulla copertina. Si formò con essa una nube che rese l’aria all’interno del magazzino irrespirabile. Impaurito rimise il libro sul grande tavolo.
In quel momento a ritmo incalzante presero a saltare i tappi delle bottiglie di vino e da esse fuoriusciva una schiuma densa  che scivolando come una serpe dal bancone a terra, invadeva progressivamente il locale.
Temendo che gli scoppi potessero richiamare qualcuno che poi lo ritenesse responsabile del disastro, uscì di corsa dal magazzino.
Il cortile era ancora deserto e inondato da una luce che riflessa dal levigato pavimento diveniva sempre più accecante. In questi bagliori notò che al centro del cortile era parcheggiata una utilitaria, la sua. Augusto perplesso si chiedeva chi l’avesse  condotta là essendo egli venuto a piedi. 
Avvicinandosi all’auto provava una strana sensazione che lo faceva oscillare tra la consapevolezza e il dubbio. Ma era la sua?  Il colore sembrava diverso ma nemmeno ricordava più con certezza il colore della sua. 
Solo dai documenti della vettura poteva accertarlo.
Appena prese posto nell’abitacolo l’auto iniziò a rimpicciolirsi ed  Augusto aggrappandosi alle maniglie degli sportelli li tirava verso l’alto per opporsi a tale trasformazione.
L’auto divenne talmente piccola da sembrare un modellino che autonomamente si avviò verso l’ingresso del giardino eppure Augusto inspiegabilmente vi stava al volante comodamente. Il cancello di ferro si spalancò e l’auto passò oltre. 
Si arrestò subito dopo l’ingresso. Augusto si guardò intorno ed ebbe immediatamente la sensazione di trovarsi in un luogo familiare che però aveva un che di strano. Scese dalla macchina e si incamminò lungo un viale delimitato da basse siepi di arbusti con foglie a forma di cuore ricoperte da spine.
Passò poi per un corridoio ombreggiato da cespugli di ortensie ora azzurre ora rosse che si ritraevano se cercava di toccarle emettendo un suono stridulo come di lamento.
Giuse ad una rotonda con al centro una vasca circolare alimentata da zampilli che fuoriuscivano da un grosso fungo posto nel mezzo. Incuriosito da macchie di colore che si spostavano a pelo d’acqua si avvicinò e si appoggiò sull’orlo della vasca chinandosi fino a sfiorare l’acqua con il naso. 
Constatò allora che le macchie multicolori erano grossi pesci simili a carpe dai colori sgargianti e innaturali. Alcuni erano completamente bianchi, altri blu o arancioni con occhi grossi sporgenti che si estroflettevano come il becco  teso alla ricerca di cibo. Augusto guardava questi piccoli mostri con timore e ammirazione. Ma chi aveva immesso quei pesci?  Lui ricordava di avere visto nuotare in quell’acqua solo dei piccoli pesci rossi.
Quando una carpa  sporse fuori dall’acqua il becco cercando di afferrargli il naso, si ritrasse  e voltatosi, solo allora, notò che, sedute sui sedili di pietra che circondavano la rotonda, c’erano sedute alcune fanciulle dall’aria mestissima;  appoggiata la guancia su una mano, piangevano sommessamente.
Augusto le ignorò. Non aveva voglia di ascoltare storie tristi  e si inoltrò in un agrumeto. Alberi alti con foglie di un bel verde scuro emanavano il caratteristico aroma. Di strano si notava solo che lunghi tralci da cui pendevano innumerevoli piccole zucche spinose, si stendevano da albero ad albero Ad Augusto sembrò, che, dopotutto, anche se improprie in quel luogo, le piccole zucche rendessero l’agrumeto più interessante. Pensò anche che erano però potenzialmente pericolose poiché se si fossero staccate avrebbero potuto colpire e ferire chi si fosse trovato a passarci sotto.
Appena completò questo pensiero le zucche cominciarono a staccarsi e a cadere come proiettili  sparati nella sua direzione. Non fu colpito. Impaurito da tale pericoloso evento, di corsa ritornò verso l’uscita dove era parcheggiata la sua auto. Ansimava per la corsa e respirava con difficoltà  perché riusciva a trascinare le gambe con uno sforzo immane. Le scarpe affondavano in un terreno molle, quasi paludoso.
L’auto era ritornata alle sue normali dimensioni. Augusto si sentiva confuso e stanco e si chiedeva cosa stesse accadendo. L’ingresso che prima era spalancato, ora risultava chiuso da un grosso catenaccio che teneva stretti i due battenti in ferro con una spessa catena. Augusto non si perse d’animo e tentò ugualmente di aprirlo ma questo resistette ad ogni tentativo  messo in atto.
“Ma era entrato da quell’ingresso o da un altro?” dubitò.
“Zio, zia” chiamò per farsi aprire il cancello. Non ottenne risposta.
Che fare? Decise che era necessario cercare un’altra uscita. Percorse in macchina il lungo viale principale del giardino.
In fondo c’era un ampio cancello spalancato. Augusto ne fu felice e accelerò per uscire al più presto temendo che si potesse chiudere. 
Oltre il cancello, il vuoto. L’auto iniziò a precipitare e con essa Augusto che, col cuore in gola, terrorizzato emise un urlo spaventoso. In quel momento si svegliò. Era sudato ed affannava per la paura, il cuore pulsava a grande velocità  rimbombandogli nelle orecchie.
- Che ansia - disse alla moglie  anche lei destatasi di soprassalto per il suo urlo – che sogno angoscioso. Era molto turbato.
- Ma perché questi sogni? Qual è il loro significato?  Ammesso che ne abbiano uno.
- Non significano niente, dormi tranquillo - biascicò la moglie desiderosa di riprendere il sonno interrotto.
Dopo trenta giorni Augusto aveva superato il turbamento  per  quello strano sogno anche se di tanto in tanto gli ritornava alla mente.
Era particolarmente euforico poiché piccoli contrasti  con la sua compagna erano stati del tutto superati. Il rapporto affettivo e sentimentale con sua moglie, della quale era molto innamorato, sereno e appagante, lo rendeva felice. Il lavoro di assicuratore gli rendeva oltre ogni rosea previsione.
Aveva, quel giorno,  un importante appuntamento in centro, in uno di quei palazzoni moderni che sembrano essere fatti solo di vetrate, di solito sede di uffici. La giornata lavorativa sarebbe stata impegnativa. Aveva fissato colloqui con molti potenziali clienti. Un fruttivendolo nei pressi del palazzo esponeva tra gli ortaggi, piccole zucche tonde spinose.
- Sembrano le zucche del sogno- notò Augusto.
Oltrepassato l’ingresso si immise in un ampio atrio chiuso, fortemente illuminato. Il pavimento rifletteva la luce  come uno specchio. Al centro una piccola vasca con zampilli e piccoli pesci rossi. 
Già mentalmente immerso nel lavoro, non la notò. Nel cortile era parcheggiata una sola auto, ma lussuosa molto diversa dalla sua. 
Sulla porta di ingresso di un locale  presso le scale era scritto “Sala macchine vietato l’ingresso”. Augusto vi posò uno sguardo distratto.
Decise di salire a piedi  per fermarsi in ogni piano ad incontrare i suoi clienti. Dopo alcune ore, terminati gli incontri e soddisfatto per i numerosi contratti stipulati si accinse ad andare via. Al decimo piano, l’ultimo da lui  visitato, due donne in abiti antichi, uscite forse da un set cinematografico o da uno studio fotografico, lo guardarono senza parlare. Una aveva gli occhi lucidi di pianto e li asciugava con un fazzolettino.  
Augusto da alcuni minuti vagava senza trovare l’ascensore. Non aveva voglia di rifarsi tanti piani a piedi seppure in discesa. Gli sembrava però di essere indiscreto a rivolgersi a due donne, una delle quali forse piangeva, intente a parlottare sommessamente fra di loro.  
Andò in giro ancora qualche minuto, ma su quel piano non sembrava esserci nessun altro e si decise:
-Mi scusino se disturbo, dove trovo l’ascensore?
- In fondo a quel  corridoio a destra.
Augusto si avviò verso l’ascensore fantasticando sulla vacanza già programmata. Grazie alle provvigioni di quella giornata avrebbe potuto finalmente offrire alla moglie una bella vacanza in un albergo di categoria superiore a quelli che frequentavano abitualmente.
Augusto aprì distrattamente la porta dell’ascensore ed entrò. La cabina dell’ascensore non c’era. Si spalancò il vuoto. 
Poi fu solo un urlo agghiacciante ed un tonfo spaventoso.
Lunedì, 05 Giugno 2017

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