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La Strada sul Fico

LA STRADA SUL FICO Le ChiccheDiAntonioalbero fico

                                                        (by Antonio Abbate)

“Azzoppcaciucc” (azzoppa l’asina) esclamava il nonno pronunciando la frase tutta d’un fiato senza scandire le singole parole quando nonostante l’ennesima  gentile ammonizione rivolta a noi nipoti, a  non intralciare il suo lavoro,  toccando e spostando i suoi attrezzi da giardino, si  perseverava in quei  comportamenti invadenti.

Oppure diceva “aquattuordicicalic” (a quattordici (lire) che belle alici) per esprimere un parere negativo su una persona che stimava “da niente” o quando si esasperava per le nostre disubbidienze.

Si esprimeva in un dialetto napoletano puro non frammisto alla lingua italiana.

Il tono del suo eloquio era sempre pacato anche quando sarebbe stata necessaria un po’ di energia ma era di natura mite; non ho mai incontrato un uomo più mite e silenzioso.

Parlava pochissimo, giuste le parole necessarie alla bisogna:” buongiorno”, per rispondere a un saluto; “vado via”, se si allontanava dal giardino; “volete fichi ?”, prima di iniziare la raccolta e la caratteristica frase “Proimancin” “dammi l’uncino” il bastone che terminava con un uncino che ricavava da due rami convergenti, per attirare a sé i rami flessibili del fico e coglierne agevolmente i frutti.

Per noi preparava anche la strada sul fico; così la chiamavamo.

Nel giardino si ergeva maestoso un fico enorme, di una tipologia che non ho mai più veduta. Fu abbattuto dopo molti anni da una violenta tempesta, poco dopo la vendita del giardino. Ho sempre creduto e lo credo tuttora che si sia lasciato morire per il dolore presagendo che bruttissime case avrebbero preso il posto dei verdi melograni, dei possenti noci, dei delicati susini che lo circondavano come amici gioiosi.

Il tronco massiccio del fico misurava più di tre metri di altezza e la cima oltrepassava di poco il secondo piano del palazzo, due piani alti, di quelli dei palazzi antichi.

Il nonno appoggiava sui rami robuste tavole da ponteggio che assicurava con fil di ferro e tendeva fra i rami funi per predisporre dei corrimano.

Su questa strada panoramica salivamo anche noi ragazzi per mangiare fichi direttamente sull’albero.

Che scorpacciate mi son fatto. Cercavo i fichi più esposti al sole e soprattutto quelli beccati dai passeri che erano in assoluto i più dolci.

Mi piaceva anche trascorrere del tempo sull’albero seduto su una tavola, le gambe penzoloni, per osservare passeri e beccafichi che si posavano sui rami alti nonostante la mia presenza e il viavai delle formiche instancabili nel loro lavoro di trasportatrici.

Non ho mai saputo di che vivesse il nonno. Se fosse assegnatario di una pensione di guerra o se fosse aiutato da qualche familiare.

So che era proprietario della casa in cui abitava, uno strano palazzetto.

Un grande portone di legno immetteva non in un cortile , come normalmente avviene, ma in un locale buio e umido quasi una grande cantina. Sulle pareti libere erano appoggiati, come in mostra, attrezzi agricoli e meccanici di varia foggia. Di fronte all’ingresso c’era una grande cucina in muratura, funzionante a legna, che come diceva lui, non veniva utilizzata da un secolo. Accanto alla cucina un lavandino in ferro tutto scrostato a causa della ruggine che lo stava divorando e, meraviglia, un pozzo funzionante con tanto di carrucola, corda e secchio, dal quale si attingeva acqua pura e freschissima.

Il nonno utilizzava il pozzo anche come ghiacciaia calandovi all’interno ceste con provviste alimentari.

Da questo spazio due ante di una porta a vetri decorati ai margini con motivi floreali, davano in uno stanzone utilizzato come sala da pranzo e soggiorno che prendeva aria e luce da tre finestre affacciate sulla strada, protette da inferriate panciute nella parte bassa verso l’esterno, per dare modo di sporgersi.

Due rampe di scale dall’ingresso portavano al piano superiore costituito da una sola grande camera che si apriva sul terrazzo esteso quanto il salone sottostante. Alcuni vasi di gerani rinsecchiti ricordavano che in passato c’era stata chi curava i fiori.

Il nonno dormiva ancora su un saccone di “sbreglie”, gli involucri secchi delle pannocchie che rinnovava ogni anno anche se in un angolo posati su un vecchio tappeto sostavano in attesa di chi sa che cosa due materassi di lana.

Il nonno era poco loquace ma non perché non avesse cose da dire; volendo avrebbe potuto raccontare cose molto interessanti, lui che aveva attraversato indenne ben due guerre mondiali.

A soli diciotto anni era stato chiamato a difendere i confini della patria arruolato in fanteria; non era molto alto.

Da civile aveva vissuto ed osservato le orrende vicende della seconda guerra mondiale e la violenza fascista.

Da questi argomenti, però, rifuggiva come da un incubo e a tutte le domande sulla guerra rispondeva con una smorfia di terrore e agitando velocemente la mano destra a taglio davanti al torace senza dire nemmeno una parola.

Né mai parlò della nonna che non ho avuto la fortuna di conoscere. Nessuna delle due nonne ho conosciuto ( e ancora mi sento defraudato delle dolci coccole riservate ai nipotini), poiché se ne andarono ancor prima che nascessi.

Da varie fonti ho appreso che il nonno era innamorato follemente della moglie. Dicono che era una donna bellissima: alta, di carnagione chiara punteggiata da poche efelidi, dai capelli color rame, lunghi e leggermente arricciati a serpentina.

Dalla sua morte in poi, il nonno indossò sempre e solo indumenti di colore nero.

Il nonno non poteva certo definirsi all’apparenza un raffinato ma nascondeva un animo sensibile dietro una scorza di rozzezza.

Nutriva un’intensa passione per la musica classica e bandistica. Da giovane, aveva suonato da dilettante il clarino nella banda del paese insieme ad un collega che aveva invece studiato musica al conservatorio e che per questo motivo meritava la sua ammirazione.

Scioltasi la banda, questo musicista, detto “capa janca” “testa bianca”, continuò a vivere professionalmente di musica e se lo indicavamo con il suo nomignolo, il nonno sempre dolcemente ci riprendeva. “ Non dovete chiamarlo così – diceva - è un bravo musicista, è maestro di bombardino”.

In gioventù mi sono allontanato, per motivi di lavoro, dal mio paese. Nei primi anni ritornavo spesso e lo cercavo per salutarlo.

Il nonno, avendo saputo che avevo un posto di lavoro nella pubblica amministrazione, forse ritenendomi per la sua ingenuità un’autorità, quando mi incontrava, per salutarmi, si scopriva il capo, sollevando quel cappello nero listato a lutto, sempre un po’ polveroso.

Era molto invecchiato. “Nonno- gli dicevo – sono io tuo nipote” e gli regalavo qualche soldo per le sigarette raccomandandogli di non arrotolarsi più le cartine col tabacco delle cicche carico di nicotina e catrame.

“Fanno male” gli dicevo.

Rispondeva “vulesse ‘a Madonna” perché non desiderava altro che raggiungere la sua Assuntina.

Nonostante le cicche se ne andò alla bella età di novantatre anni.

Non lo vedevo più da tempo quando mi fu data la notizia, a funerale concluso.

“Per non darti il disturbo di venire” mi dissero a giustificazione del ritardo.

Per me fu un dispiacere; volentieri sarei andato a dargli l’ultimo saluto. 

LeChicceDiAntonioNonno2

 

Giovedì, 02 Giugno 2022
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